“Bolliture, cotture e graffiti” di Tiziano Dalpozzo – Catalogo Mostra

Una rappresentazione di sé sommessa, con le incertezze della storia prima
che questa avesse raggiunto il primo grado della scrittura e della
archiltttura come sedimenti sovrapposti. La Bibbia, come probabilmente l’Iliade e l’Odissea erano – prima di essere libri – cultura orale, lenta trasmissione nel tempo cui ogni oratore aggiungeva del suo. Ognuno introduceva piccoli elementi diversificanti e soggettivi all’interno di un canovaccio tanto fabulistico e affabulatore quanto alla fin fine, assolutamente vero. Vera è la storia generale: in continuazione si trovano tracce che confermano la sostanziale veridicità di fondo di queste storie, vera nei suoi particolari. Se non si tratta del Vangelo di Marco, si tratterà di qualche storia assolutamente vera di Matteo ma, sempre di storia vera si tratta. Queste sono le prime (o primigenie) sensazioni di fronte all’opera di Franco La Maida. Sculture ancestrali, appena abbozzate e lacerate, sintesi di gesti o amplessi archetipici, privi di tabù sociali, legati al primitivo piacere della carne, o al massimo alla sua traduzione nelle sculture arcaiche. Memore di culture lontane, passate perché arcaiche, distanti perché esotiche. Lontane nel tempo, poi cancellate da infantili tabù di recente costruzione, diverse nello spazio perché appartenenti alle culture aborigene, etrusche, hindi. Primitivi sono i segni che restano, occhi (come specchio dell’anima?), pesci come esorcizzazione della pesca, esattamente come nelle grotte di Lascaux la rappresentazione degli animali è l’esorcizzazione, il buon augurio per la caccia futura. Hindi perchè Masala: miscuglio. In Hindi Masala è spesso riferito al cibo, masala chai si riferisce al tè miscelalo con spezie, zucchero e latte. Il miscuglio, nella nostra cultura post- luterana potrebbe avere un’accezione negativa; può significare qualcosa di contaminato di sporco (moralmente sporco). La stessa parola nell’accezione hindi assume una valenza di aggiunta positiva, di arricchimento, di gusto superiore rispetto alla sua purezza (e povertà) iniziale. Le bolliture e le cotture sono l’elemento alchemico di trasformazione, l’uomo che scopre il potere trasformativo del fuoco ed il potere di avere il fuoco, di possederne i segreti di interpretarne le capacità transustanziatorie. Le bolliture e le cotture assurgono dal ruolo di elementi dequalificanti, difettosi al ruolo di controllata trasformazione della materia, al ruolo di aggiunta qualitativa: masala. Un capitolo a se spetta ai graffiti. I graffiti sono gran parte della storia della ceramica; si ritrovano nella ceramica primitiva, nella ceramica africana e nella ceramica arcaica faentina. I graffiti diventano tagli nella ceramica di Fontana. Nell’accezione di la Maida i graffiti , perdono il ruolo aggressivo urbano di un segno di Haring per assumere il ruolo di connotazione espressiva civica, non contrapposta alla società ma nata da essa per allietarne l’iconicità (espressività), per riconciliarla con le radici. L’opera di La Maida riassume la storia del suo autore. Il restauro: ossia la ricerca dell’anima, delle motivazioni più recondite del passato, della sua essenza, delle sue motivazioni riemerge prepotentemente nei suoi lavori. Le opere appaiono alle volte come reperti archeologici appena dissepolti, cristallizzando in noi quell’attimo magico della “riscoperta” e con essa, più che una proustiana “madeleinette”, uno squarcio prepotente della memoria sul passato. L’opera diviene un lampo durante il quale, si dice sia possibile rivedere tutta la vita prima della morte. Alcune opere, le sculture “lacerate”, appaiono appena dissepolte. Le lacerazioni plastiche perdono ogni nettezza razionale fontaniana per contenere l’ incertezza della resurrezione. Paiono contenere in sé l’ attimo di inenarrabile dolore prima del decesso. Un grido munchiano trasposto sulle carni, sulle lacerazioni. Nel contempo la vita continua, ci dà il meglio di sé, rinasce. Gli amplessi raffigurati sono amplessi sacri come lo sono quelli rappresentati sui templi indù. La memoria del passato attraversa e contagia le forme, “ l’ombra della sera” contagia La Maida come aveva contagiato Giacometti. Le pastose sobboliture delle carni corrodono i tessuti come il tempo, permanenti ieraticità memori dell’opera di Manzù emergono a tratti, indelebile segno di passate nobiltà. In tempi recenti una diatriba ha attraversato alcuni ambiti della storia dell’arte perché appariva improprio l’uso del termine “arte di corte” applicato all’arte precolombiana, considerato di sola pertinenza europea o quasi. Come se le culture nazca, maya o azteche non avessero avuto importantissime corti coi loro artisti. L’arte di corte di La Maida appartiene alle prime culture di corte, alle corti che si sono create con le prime tribù, alla nascita dei primi villaggi. Quando la motivazione artistica manteneva più saldo e diretto il suo legame con motivazioni più immediatamente utilitarie. L’utilità appartiene alle grandi domande sull’esistenza, alla rappresentazione del simbolo dell’eternità, del non compreso, del non spiegato. L’utilità alla fin fine, appare un moderno “Tsunami” che condanna l’umanità e ne ricorda la ridicola capacità di intervenire sul mondo e sul proprio destino. Le ciotole, oggetti quotidiani apparentemente umili, assurgono così a grande valore di simbolo, divengono ostensorio, rappresentazione della divinità e della trasmissione nell’uomo del sangue e del corpo del divino. Analogamente in alcune tribù si bevevano le ossa del defunto per consentirne la prosecuzione della vita, per acquisirne la storia, le capacità, la memoria e queste non morissero con lui. Questo consentiva all’uomo di “progredire”, di elevarsi dalla miserrima condizione di pura natura. Le ciotole sono ottenute per riduzioni, con inserimenti in cottura di casuali presenze di foglie di alloro. L’uso di terre refrattarie per la loro realizzazione accumula nella loro consistenza la presenza onnicomprensiva del sacro. L’attività di La Maida si concretizza quasi con la tecnica del “lustro”. Il lustro è un antico procedimento originato da popolazioni arabe del Mediterraneo orientale di cui si conoscono opere dell’VIII secolo. Credo che il lustro abbia contenuti alchemici pari a quelli che si riscontrano nei fondi oro pittorici. Qualche anno fa (1999) si tenne una bella mostra dedicata al lustro a Gubbio. In tale occasione, nel catalogo Bojani asseriva “le tecniche del lustro non parrebbero situarsi sull’onda della sensibilità contemporanea per l’arte, almeno d’avanguardia storica e sue persistenze, i cui linguaggi espressivi rifuggono in gran parte da materiali e tecniche sofisticate, per scelte piuttosto nei campi dell’astratto, del concettuale, dell’ informale, del povero, del minimalismo e così via. Per non dire, poi, di quando è successo e succede con il design: dove il lustro, data la sua imponderabilità, è antitetico ad una programmatica razionalità. Sulle considerazioni di Balani si potrebbero avanzare molte riserve di ordine generale ma per quanto attiene alla produzioni di Franco La Maida paiono fatte apposta. La ricerca, tipicamente ceramica, sulle “riduzioni”, per un profano quale io sono, sugli esiti alchemici della ceramica mi affascina ma non tanto quanto affascina un ceramista, conscio dei labirinti della chimica (e dell’ imponderabile) che si percorrono per ottenere certi risultati. Dice La Maida descrivendo le sue esperienze “si comincia giocando…”. Ma anche il gioco è una grande esperienza umana, intellettuale, spesso grande metafora del comportamento umano, singolo e collettivo: si pensi al gioco del mondo o al gioco degli scacchi. Nella stessa definizione par di ravvisare il principio picassiano “io non cerco trovo” in cui gli intellettualismi dell’arte, di cui sono pregni artisti, critici e storici, sono aborriti, per recuperarli eventualmente – a posteriori. Preliminare è recuperarne la sua componente istintiva, di ricerca senza finalità immediate ed estetiche, il suo valore tutto altro da sé rispetto alla contingenza quotidiana dell’uomo, e quindi, proprio per questo, principe rispetto alle banali necessità del presente. Suppongo che uno dei momenti più importanti della formazione culturale di Franco La Maida si sia avuto alla fine degli anni cinquanta/primi anni sessanta, periodo in cui ebbe occasione di frequentare l’istituto d’arte Baliardini ed i professori Carlo Zauli e Angelo Biancini. A questa rilettura della biografia riesco a mettere a fuoco una cosa importante che mi sfuggiva: l’informale. In quegli anni il dibattito sull’informale è acceso. La ceramica non può restarne immune, nuovi protagonisti si fanno avanti, Leoncilio pare far assurgere al materiale nuove vette. Carlo Zauli con gli studenti stende la creta sulla strada e sedimenta le tracce dei passaggi non programmati, passi, ruote. La Maida in queste sue opere matura il conflitto che esiste fra l’informale, il gesto che diventa segno, l’arte non programmata, imprevista nei suoi esiti e la sua formazione di ceramista ossia l’ arte che deve essere programmata, che devi pre-vedere nei suoi esiti. La ceramica è da un certo punto di vista l’arte formale per eccellenza. Si deve prevedere il ritiro, il cedimento della tesa, la fessurazione durante l’asciugatura del pezzo, la cottura, accuratamente controllate per evitare (o programmare) che uno smalto fonda. La condizione di incomunicabilità dell’informale deve essere superata dall’istinto comunicativo dell’arte primitiva fatta principalmente per far partecipe la collettività delle proprie espressioni. La chiave principale dell’opera di La Maida è nel conflitto fra il desiderio di comunicare e la discrezione degli atti e dei sentimenti. Il corpo umano ha in atto, nello stesso momento in cui raggiunge l’arte del piacere terreno un processo di disfacimento, di corrosione del corpo medesimo che annulla il motivo principale dell’atto sessuale, la comunicazione, il congiungimento con un altro essere umano il colloquio dei gesti. Si tratta di una interrogazione sulla sessualità che è un rientro nella placenta, un atto quasi dolente, la corrosione dei corpi pare l’inizio di un processo in atto che contamina e condanna la piacevolezza dell’atto e del corpo che lo compie. Si ritorna all’origine, alla formazione da archeologo, ai ritrovamenti dei vittimari, gli addetti al sacrificio. Si ritorna al fondo nero su cui si stagliavano le statue dei frontoni di alcuni templi romani. La ricerca è lavoro, smaltatura su smaltatura, cottura su cottura. La sovrapposizione di colori per cotture successive fa nascere superfici nuove. Il tempo, il tempo delle diverse cotture, diviene tempo dell’opera, tempo sedimentato, tempo archeologico. L’ oggetto è memoria, è stratigrafia, è nuovamente altro da sé, è reperto del presente. La “casualità” degli esiti , così frequente nell’opera ceramica, è ricerca, ricerca dell’imperfezione programmata, del difetto che impreziosisce l’oggetto, che lo differenzia dall’ opera industriale, della macchina, l’oggetto diviene memoria della manualità dell’uomo.